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INTERVENTO FINI AZIONE GIOVANI

Interventi

INTERVENTO DI GIANRANCO FINI  ALLA FESTA NAZIONALE DI "AZIONE GIOVANI"   20.09.2008

Io sono convinto, e non da oggi, che la destra politica  italiana, e a  maggior ragione i giovani, debbano senza ambiguità e reticenze dire che si  riconosco in pieno in alcuni valori che sono certamente  presenti nella  nostra Costituzione: in particolare, la libertà, il  principio di eguaglianza
e la solidarietà, o anche giustizia sociale. Sono tre  valori che hanno  guidato e che devono guidare il cammino politico della  destra; ribadire in  ogni circostanza che in quei valori la destra si conosce,
credo che sia un  atto doveroso, perché sono valori tipici di ogni  democrazia, perché non può esistere una democrazia che neghi eguaglianza, libertà e giustizia sociale.               
Poi si può discutere sul livello di attuazione, ma quei  tre valori sono ben  chiari nella nostra Costituzione, sono valori che il capo  dello Stato, e chi  lo preceduto, in mille occasione hanno richiamato, valori  che a pieno titolo  possono essere definiti valori antifascisti.
Se la destra ha la lucidità, e non il coraggio, di  ribadire che  riconoscendosi in questi valori tipici della nostra  Costituzione, tipici di  ogni democrazia, valori che a pieno titolo possono essere
inseriti nel  Pantheon dei valori antifascisti; se la destra lo fa, a mio  modo di vedere  rende più agevole una operazione culturale e politica di accertamento e di  ripristino di una verità qualche volta negata, e mi  spiego: non c' è dubbio  che chiunque è democratico è a pieno titolo antifascista,
ma attenzione, non  è un gioco di parole. In Italia per ragioni storiche e  politiche, non tutti  coloro che si professano antifascisti erano democratici,  perché c' è stata  nella storia italiana, che peraltro è complessa, anche per  ragioni connessa  alla congiuntura internazionale, aspri momenti di
confronto, nel mondo  antifascista, e non solo in quello che prende corpo durante  la resistenza.
In termini chiari: chi aveva come modello quello  dell'Unione Sovietica di  Stalin, è evidente che era a pieno titolo antifascista, un  impegno che  magari pagava col carcere, che lo portava a prendere le  armi, ma non poteva  essere definito automaticamente a pieno titolo un  democratico.
Mi fa piacere che oggi sia presente anche Gustavo Selva,  perché nelle tesi  di Fiuggi queste cose le abbiamo scritte e da lì dobbiamo  ripartire. Badate  bene che in Italia, a differenza di altri paesi, non è  stato cosi agevole  affermare questa verità  ogni democratico è  antifascista ma non tutti gli
antifascisti sono democratici  anche perché in Italia  non c'è mai stata una  destra politica che abbia avuto il coraggio di dire, noi ci  riconosciamo  pienamente nei valori dell'antifascismo, nella libertà,  nell'eguaglianza e nella giustizia sociale. In Francia invece la situazione è  differente,
perché lì il capo della resistenza antifascista fu De  Gaulle, uomo di  destra, una destra che mai e poi mai ha dovuto fare i conti  col retaggio  precedente. In ogni caso, proprio perché li voglio mettere
tutti i puntini  sulle "i" , quando ci si confronta con la storia occorre  avere la  consapevolezza che un periodo storico non può essere  trattato come un  filmato cinematografico dal quale prendi un fotogramma,  quello che ti pare  più suggestivo, il più intrigante, poi giudichi quel  fotogramma prescindendo  dall'interezza della pellicola del film. Quando ci si confronta col periodo  fascista bisogna avere la lucidità di dire che il giudizio  non può essere  che complessivo, non può essere dato sulla base di un  fotogramma. Mi spiego: Mussolini fu definito da un pontefice l'Uomo della
Provvidenza, gli storici dicono che ha modernizzato l'Italia, c'è chi dice che ha fatto l'Inps, il Times del '38, dopo il vertice di Monaco, disse che aveva  salvato la pace. Ma chi dà oggi un giudizio partendo da  quei fotogrammi,  senza valutare quello che c'è stato prima e dopo?
Il giudizio complessivo da parte della destra deve essere negativo in ragione della limitazione e poi della soppressione della  libertà. Giorgia (Meloni - ndr)  ricordava che è doveroso battersi contro le dittature, non  possiamo negare  che il fascismo abolì alcune libertà, fu dittatura. Il  principio della eguaglianza, ragazzi, perché non c'è nulla di più infame che affermare  che un uomo è superiore a un altro per ragioni genetiche,  il razzismo, biologico. L'infamia delle leggi razziali è nel pensare e presupporre che una razza  sia migliore o superiore, che sia destinata a comandarne  un'altra. Questa  infamia, questa aberrazione, questo male assoluto, è nella  negazione a priori  del valore rappresentato dall' eguaglianza. Poi, aggiungo a  margine, la  destra politica deve declinarli bene i valori della  libertà,  dell'eguaglianza e della giustizia sociale, è  interessante vedere come  vengono declinati in maniera diversa se da sinistra, dal  centro e da destra.
Ma negare alla radice il principio dell'eguaglianza poi  determina l'epilogo,  l'ultimo atto della tragedia, la presunzione di  superiorità e l'auspicio che  questa superiorità porti alla soppressione del diverso.  Dunque, la  soppressione della libertà, la negazione  dell'eguaglianza, il film visto  nella sua interezza e, come ultimo atto del film, la  dichiarazione di  guerra, che ha messo l'Italia in ginocchio, una catastrofe  che i nostri  padri e vostri nonni non hanno dimenticato.
Realpolitik? Cinismo? Nelle memorie del ministro degli  Esteri e genero di  Mussolini, Galeazzo Ciano, c'è una frase, certo materia  da storici, ma  significativa: "un pugno di morti per sedere vittoriosi al  tavolo della  pace". In realtà la storia ha avuto ben altro esito.
L'Italia modernizzata?  Sì, ma poi nel '45 era rasa al suolo. Questi sono i dati  fattuali, non possiamo prescindere. Tu, Giorgia, dici: dobbiamo vivere  nostro tempo,  guardare al futuro, ma il passato non lo possiamo né  ignorare né  mistificare. Dire queste cose significa negare la  possibilità di quella che  anche tu chiami la pacificazione, la riconciliazione?
Certamente no, ma  anche qui dobbiamo essere intellettuamente onesti:  riconciliare un popolo
non può significare, chi ha avuto avuto e chi ha dato ha  dato... Si può  scrivere una memoria condivisa quando si ha l'onestà da  ogni parte di dire  delle verità che possono essere scomode ma che sono  verità, e le verità  sono, almeno per quanto mi riguarda, molto semplici.
Sicuramente ci sarà  stata  sarebbe stupido negarlo  da parte di tanti  ragazzi, e di tanti  uomini, assoluta buona fede nel fare certe scelte, nel  rimanere fedeli ai  propri ideali, nel continuare a combattere per una  bandiera. Riconoscere  questa buona fede in molti casi è doveroso, ma è
altrettanto doveroso dire  che non è in discussione la buona fede: non si può  equiparare chi stava da
una parte e chi stava dall'altra. Onestà storica e compito per una destra che voglia costruire il futuro e fare i conti col passato  è anche dire che  non era equivalente strada una parte o dall'altra, che
c'era chi combatteva  per una causa giusta, che era la causa della libertà,  dell'eguaglianza, della giustizia sociale, e c'era chi, fatta salva la buona  fede in molti  casi, combatteva per una parte sbagliata. Non sono  categorie morali, sono storiche. Categorie storiche e politiche: o si sta dalla
parte di quei  valori che sono indispensabili per un popolo che vuole  costruire una  democrazia basata sulla libertà e sulla giustizia sociale,  o si sta  dall'altra parte. Credo che la destra debba ribadire in  ogni circostanza,  spero con la chiarezza che ho avuto in in questa occasione,  questi concetti,  proprio per superare il passato, non per dimenticarlo, non  per archiviarlo,  ma per costruire una memoria che consenta al nostro popolo  di andare avanti.
Cosa si può fare per creare davvero una memoria  condivisa?
Non è che la memoria condivisa la si crea in un attimo,  calandola  dall'alto. Il processo è lungo e faticoso, passa  attraverso la capacità che  devono avere tutti i soggetti, politici e culturali - e da  questo punto di  vista una scrittura della storia onesta, aiuta - di andare  al cuore del  problema. La memoria condivisa è in qualche modo una  conquista che un popolo  raggiunge nello stesso momento in cui c'è da un lato la consapevolezza che  non si possono alzare le spalle e dire, "basta, dobbiamo  guardare avanti",  dall'altro che bisogna scavare nella storia di un popolo  proprio per trovare  un momento unificante. Il ruolo della scuola, della  corretta informazione e  di una buona politica diventa essenziale: io rimango  ottimista, anche  rispetto a quando ero io un dirigente giovanile, perché  oggi, tranne che in  alcuni momenti, non si ricorre alla storia come arma  impropria del confronto  politico. In passato ci sono stati momenti di scontro  politico al calor  bianco, mentre oggi c'è un distacco maggiore tra la  lettura della storia e  il confronto. È evidente che bisogna puntare molto su  significato di alcuni  simboli, di alcuni comportamenti personali, è sempre la  forza vincente  dell'esempio che funziona per i più giovani, ai quali  bisogna avere  la capacità di dire che non si tratta di questioni non  collegate al loro presente: ci sono elementi viventi, in carne e ossa, che  possono  rappresentare la memoria condivisa. Io sono grato, non da presidente della Camera ma da privato cittadino, di  quello che ha fatto un Capo dello Stato come Carlo Azeglio  Ciampi, che ha  lavorato non per il "scordiamoci il passato" ma su ciò  che unisce. Questo  deve riguardare tutti, riguarda la destra ma anche la  sinistra, anche per  quello che ho detto all'inizio, per quell'equazione non  sempre  corrispondente tra democrazia e antifascismo. Ai giovani dico che il passato  deve passare, ma non va dimenticato, bisogna avere la capacità di trarre  insegnamento dal passato per non commettere più gli stessi  errori. Quel  "mai più" che troviamo scritto nei libri di memorie deve essere un monito: sarà  anche vero che quando la storia si ripete diventa farsa ma  certamente non  possiamo e non dobbiamo dimenticare ciò che ha comportato  delle tragedie,  questo è un compito di tutti. Io ho detto che la destra  politica di cui sono  espressione, deve coniugare i valori della libertà,  dell'eguaglianza e della  giustizia sociale, ma credo che in Italia avremo un momento  molto positivo  quando ci confronteremo su ciò che significa concretamente  declinare quei  valori.  Faccio un esempio: la libertà, per noi di destra, non è  necessariamente la  libertà "da", ma "di": non da qualcosa, ma di essere se stessi, di credere  nelle proprie opinioni. Non dico che la sinistra ha  un'altra logica, ma  questi valori poi dobbiamo tradurli nelle leggi, alcuni  valori non sono mai  astratti, devono farsi concretezza. Tutte le famiglie politiche e culturali  di questo paese si riconoscono nei valori della libertà,  dell'eguaglianza e della giustizia, poi bisogna vedere come li vanno a  declinare. Il semplice  fatto che ci noi ragioniamo sulla libertà di fare e non  da qualcosa, vuol  dire che c'è una distinzione nel modo di declinare i valori. E questo vale a  maggior ragione per il principio dell'eguaglianza. Qui so  che sfondo una  porta aperta: c'è chi l'ha concepisce come possibilità di arrivare tutti al  medesimo livello, come per la grande utopia fallimentare  socialista.
Ma per noi la vera eguaglianza è quella del punto di partenza:  affermare questo  concetto da destra significa dire che tutti hanno il  diritto di partire  dallo steso punto, al nord, al sud,  al nord, al sud, bianchi, neri, chi crede in un Dio, chi in  un altro, ma  l'eguaglianza non ci sarà mai nel punto terminale perché  la società deve  tendere a una gerarchia di valori. Questa è una visione di  destra, più che  della sinistra,  Allora credo che sarà un bel giorno, e forse oggi è più  vicino, quando nel
nome della Costituzione e dei valori democratici che è  pienamente lecito  definire antifascisti, vogliamo capire come tradurre la  memoria condivisa in  politica, negli atti concreti. Nella risoluzione dei  problemi non possiamo  dire, "guardiamo alla storia e vediamo se la pensiamo allo
stesso modo"...
"Qualcuno ha definito il '68 un male assoluto. La vostra  generazione non ha  fatto autocritica su quella fase, che poteva rappresentare  una grande  opportunità per una certa area politica. E di questo  ancora oggi noi  paghiamo le conseguenze. La nostra generazione può  chiudere questa parentesi?
Quando divenni segretario del Fronte della Gioventù, nel '77, discutemmo a  lungo se i giovani di destra - visto che tutto era accaduto  pochi anni prima  - avessero perso o meno un'occasione. Ero convinto, allora  come oggi, che  fosse una discussione stucchevole. Il '68 è stato tutta  una serie di eventi,  di atteggiamenti, fu una rivolta generazionale, una presa  di coscienza di  giovani che uscivano dalla fase del dopoguerra e cercavano  esempi e modelli  comportamentali molto diversi da quelli dell'epoca. Non  c'è dubbio che fin > dal primo momento la venatura politica e ideologica fu impressa da movimenti  della sinistra più radicale, quelli che oggi potremmo  definire collegati a
tutta una certa visione di tipo terzomondista. Non si  capisce il '68 se non  lo si collega al Vietnam, a ciò che accadeva in Cina, a un  contesto storico  talmente diverso da rendere oggi stucchevole la discussione  sul fatto che si  perse un'occasione. Il '68 certamente determinò un forte  cambiamento nella  società, ma fu tutto negativo? No, ma sarebbe sbagliato  dire che ha  rappresentato la stagione in cui la libertà ha fatto  irruzione, in cui ci si è liberati da catene antiche; non è cosi, anzi, in Italia
fece più danni e  macerie di quelli che qualcuno pensa. Quello che non  sopporto è che chi lo  ha fatto, ieri, come professione, oggi che spesso ha  raggiunto posti di  rilievo nella società, si ritenga un sessantottino in  servizio permanente ed effettivo. Cosa fu più negativo, tra le tante suggestioni
di quel periodo?  Lo slogan principale, il concetto del "vietato vietare",  l'inno assoluto  alla libertà. La libertà è sempre un valore, ma  l'utopia del ¹68 aveva in  qualche modo fatto degenerare il valore della libertà in  anarchia, assenza  di regole: dire "vietato vietare" è una delle più  colossali forme per  esprimere la propria imbecillità. La mia libertà è  garantita da autorità  legittime, nello stesso momento in cui la libertà di un  altro non invade la mia. Non c'è libertà se non c'è associato il divieto,  la libertà senza  autorità non esiste, diventa "omo ominis lupus",  anarchia, licenza di
> sopraffazione. Allora, dove il ¹68 ha fallito? Nello  sperare in un mondo  utopico dove la libertà era assenza di autorità, non può  esserci libertà se  non dentro un'autorità. Ed ecco che torna il tema delle  dittature: non può  esserci autorità che non sia scelta, che sia imposta.  Questo aspetto che ha
> determinato tanti guasti è sufficiente per dare un  giudizio negativo sul  '¹68. Ecco perché la destra non credo che debba  rimpiangere l'occasione  perduta.  Come si poteva pensare che la destra dell'epoca potesse  pensare alla libertà  senza il principio dell'autorità, se non pensiamo a  questo allora cosa  rimane di destra? Più nulla. Alcuni aspetti negativi del '68 sono stati  pagati per molto tempo dalle generazioni successive: ricordo gli esami collettivi all'università nel nome della comunità, del  collettivismo, si andava col libretto e il professore, intimidito, metteva 18  o 30 a tutti. È  evidente che chi ha preso una laurea così, non solo non ha  portato un grande  contributo alla società, ma anche nella loro crescita sono  stati danneggiati  dall'utopia del ¹68. In più, in virtù di quel principio  di eguaglianza,  quella stagione ha determinato un colpo pesante a quella  selezione  democratica che rappresenta il sale di ogni società  democratica: chi vale di  più ha più di chi merita di meno, ma questo concetto era  negato dal '68.  Oggi però, chi difende più una società come quella che  si era creata?  Nessuno: nessuno è così stolto da dire che gli esami  vanno fatti di gruppo.  Il '68 è stata la stagione dei diritti, giusto, perché  alcuni erano davvero  negati: quella società non era aperta e tollerante,  parlatene con i vostri  padri. Quella fu una stagione di lotta per diritti delle  minoranze, delle  donne, ci fu il femminismo. Però sottolineare soltanto i  diritti, omettendo  che ci sono altrettanti doveri, ha portato a quelle  conseguenze negative che  sappiamo. Dopo una fase di sbandamento credo però che un equilibrio si stia  ritrovando. Certamente alcuni aspetti del ¹68 furono anche  positivi, fu un  periodo che tolse le ragnatele, aprì le teste, poi però ebbe una  degenerazione nell'estremismo, per poi riposizionarsi.  Oggi c'è una  maggiore consapevolezza che i diritti e i doveri stanno  insieme, che libertà  e l'autorità non possono essere declinate l'una in  assenza dell'altra. Ma all'epoca io avevo 16-17 anni, questi ragionamenti non si
facevano in modo  così compiuto, si era all¹interno di un grande tornado,  di positivo c'era  questo enorme amore per la libertà, il gusto di spezzare  dei totem, dei  tabù. Il 68 ha spazzato via tutto, creando problemi, ma  quando si è  ritrovato l'equilibrio, la società, in qualche modo, un passo avanti l'ha  fatto.
I valori che lei ha declinato, sono gli stessi del Ppe?
Il Ppe non è più il partito che a livello europeo raduna  quei movimenti  politici di ortodossa derivazione democratica e cristiana:  oggi il Ppe è una  grande famiglia europea nella quale ci sono due movimenti  politici, i  conservatori britannici e l'Ump di Sarkozy, che si  definiscono di destra. Il  Ppe ha aperto a loro perché quei valori sono  sostanzialmente i medesimi,  quelli di cui abbiamo parlato prima, solidarietà, libertà  ed eguaglianza, il  riconoscimento di quelle che sono le identità dei popoli,  in assenza delle  quali anche l'Europa sarebbe solo un mosaico. Dalla  lettura del manifesto  del Ppe, e confrontandolo con quello del Pdl, è arduo se  non impossibile  trovare ciò che li rende incompatibili.


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