DON GIUSEPPE E QUEL SEMINO DI VITE... - Il sito di Marco ZACCHERA

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DON GIUSEPPE E QUEL SEMINO DI VITE...

Interventi
 
Dal libro LA MOSCHERUOLA di Marco Zacchera    Alberti libraio ed. – 2015
DON GIUSEPPE E QUEL SEMINO DI VITE...
Questo testo è la prefazione di un libretto mai nato. Mi era stato chiesto di scriverlo perché fosse parte di un libretto-regalo ai pallanzesi per l’85° compleanno di Don Giuseppe Masseroni, ma poi non se ne è fatto nulla e allora ho pensato di inserirlo qui e non tanto per i verbanesi che lo conoscono bene, ma per i lettori più lontani che probabilmente non l’hanno mai visto né conosciuto. La ragione è speciale: Don Giuseppe ha una sua storia di cristiano da raccontare a tutti proprio perché a tutti ha dato e può dare una mano, soprattutto nei momenti di difficoltà e di bisogno. Non solo lui personalmente ma per la speranza che rappresenta e la sua capacità di stare vicino. E’ appunto un “semino” che ha attecchito a Pallanza ma poteva essere piantato ovunque: il soffio dello spirito va dove vuole e entra nel cuore degli uomini con le persone e le forme più diverse.  Così, quando si dice “testimoni del tempo” eccone uno…
Raccontare di Don Giuseppe Masseroni ti porta subito a sorridere ed è piacevole anche perchè diventa una bella l'occasione per cucirgli intorno ricordi di un' intera città che è cresciuta con lui rispolverando così episodi, persone ed immagini che vorresti non fossero dimenticate da chi verrà dopo di noi nella ruota del tempo.
D’altronde  se conosci un sacerdote che comincia il suo ministero proprio quando tu ti affacci alla vita e resti in contatto con lui per decenni alla fine la storia che ne viene fuori è facile, semplice e immediata, ma stretta come quella delle viti che riempiono gli angoli dei giardini.
Piante non forzate nel loro sviluppo come quelle dei filari diritti sulle colline e pronti per la vendemmia, ma come quelle viti un po' strane e contorte, solitarie, quelle che all'inizio crescono quasi per caso tra due sassi - tanto che le fai appoggiare a un bastone per non farle cadere - ma poi loro prima o poi si agganciano da sole a un pilastrino o una tettoia e si mettono a correre su per i balconi e le finestre. Anno dopo anno diventano tutte rugose, attorcigliandosi sulle verande delle nostre vecchie case verso il lago. Così, senza cure particolari, ogni estate prima ti fanno una bella ombra  poi diventano la gioia di chi va a rubacchiare i grappoli tra le foglie quando cominciano a diventare gialle mentre gli ultimi acini fanno da dispensa autunnale per un battaglione di quelle vespe che sanno sempre scegliere il meglio.
Eppure nessuno, all'inizio, aveva pensato di impiantare proprio lì quell’uva nata da un seme che probabilmente qualcuno aveva sputacchiato per terra insieme alla buccia di un acino.
Quel semino è però germogliato tutto da solo, nel silenzio, ma giorno per giorno è cresciuto     come i semi delle piante di sesamo che da duemila anni in qua si sono fatti una grande pubblicità con le parabole del Vangelo – ed è diventato una grande pianta capace di affrontare il gelo, il vento e i temporali...o i guai della vita come è stato per Don Giuseppe a Pallanza.
La similitudine dell’uva  – ma solo dopo che l’avevo già scritta – mi ha riportato con il pensiero in Piazza San Pietro in quel giorno di aprile del 2005 in cui la TV aveva appena mostrato la fumata bianca dalla Cappella Sistina e così, lasciata Montecitorio per un’oretta, con tanti colleghi eravamo andati in piazza per vivere l'attimo storico e sentire in diretta chi fosse entrato in conclave cardinale uscendone papa e - quando Benedetto XVI uscì a benedire dal  balcone della basilica – anche lui subito aveva parlato di sé stesso come di un povero operaio piantato nella vigna del Signore.
Don Giuseppe per ora non l’hanno ancora fatto papa (ma non si sa mai, non ci sono limiti per lo Spirito Santo…) ma è stato sicuramente un semino di uva solitario trapiantato a portar frutto in quel di Pallanza. Ma in fondo i “Masserùn” sono agricoltori da secoli, quindi nulla di nuovo sotto il sole.
Le similitudini agricole finirebbero qui, se non avete mai avuto l'occasione e la fortuna di passare in quel di San Leonardo scoprendo il giardino nascosto della canonica, quella che – ma lo sanno in pochi – era mille anni fa il castello dei De Castello e dei Barbarava, famiglie nobili della “bassa” (probabilmente di Biandrate) che aveva infeudato Pallanza. Un giardino piccolo piccolo, quasi pensile, nascosto tra le case e fatto di poche aiuole e piante da frutta, ma perfettamente esposto al sole del lago e che Don Giuseppe per anni ha curato nei (pochi) tempi liberi tra un impegno e l'altro.
Mai notata l’antica porta del castello verso la nuova via recentemente dedicata al prof. Andrea Cavalli Dell’Ara e già Via Prevostura? Quel prezioso arco di granito era la porta carraia di un castello grande come oggi sono le case davanti alla chiesa, probabilmente con il lago intorno (allora il livello era un po’ più alto di adesso), una penisola o un’isoletta tipo quella di San Giovanni che infatti sta a poca distanza, probabilmente un'altro scoglio della stessa, antica morena glaciale.
Ma torniamo al personaggio di questo libro o ci allarghiamo troppo...
Dunque, nel settembre del 1949 arrivò a Pallanza un “prete novello” come si usava dire allora (oggi di “Novello” è rimasto solo il vino nuovo a novembre, ci ricaschiamo con la vigna…) spedito a Santo Stefano, su in “Vila”.
Lui probabilmente non immaginava che a Pallanza ci sarebbe restato per sempre,  come il semino d’uva che una volta fatte le radici non lo sposti più, fatto sta che cominciò subito con impegno a lavorare con i ragazzi dell’oratorio (allora a Pallanza di parrocchie e di oratori ce n'erano due, anche se il Don Bosco in fondo era solo a due passi). Don Giuseppe lavorava con la gente più semplice  dimostrando subito una attenzione particolare a chi si trovava in difficoltà.
I Masseroni erano e sono gente di Fontaneto d'Agogna, terra di preti, fatica e stentato granturco, e infatti in famiglia oltre a Don Giuseppe c’è ancora il “coscritto” cugino Don Carlo (il missionario che sta in Burundi), Mons. Enrico Masseroni arcivescovo di Vercelli (insomma, quello che ha fatto carriera) e don Giancarlo che - dopo una vita in Africa e una breve comparsata a Cambiasca - è attuale parroco a Santa Cristina di Borgomanero. Anche un altro fratello di Don Carlo ha fatto vita religiosa, parroco a Bellinzago e un altro cugino – Don Eugenio – è da una vita parroco in Valsesia mettendo insieme, insomma, una di quelle che a ragion veduta si potrebbero classificare come “famiglie benedette”.
Eppure allora non era facile diventare sacerdoti: vocazioni numerose (spesso era anche un modo per le famiglie povere di poter far studiare i figli) ma c'era anche una dura selezione visto che l'anno in cui Giuseppe entrò in seminario in prima ginnasio c'erano 85 chierici, ma gli ordinati furono poi solo 19. Tra questi ben quattro di Fontaneto d'Agogna di cui tre con cognome Masseroni: record insuperato ed insuperabile dopo anni di studio e – soprattutto nei gelidi edifici del seminario all'Isola di San Giulio – tante privazioni all'insegna delle “tre effe” (fame, fumo e freddo) che scoraggiavano più di un postulante.
Il nostro Don Giuseppe tenne duro, ma era figlio unico e a casa non credo che siano stati troppo contenti quando seppero della sua scelta, anche perché venivano a mancare due buone braccia per i campi, ma la vocazione non mancava e quindi “sia fatta la volontà del Signore” . Le prime esperienze del nostro don furono da “prete operaio” su e giù con il treno della linea Novara-Domodossola nell’inedita formula di fare il cappellano stando vicino ai pendolari delle fabbriche, poi l'incarico a Pallanza che sarà la sua prima (e unica) destinazione stabile.
Don Giuseppe fu dunque insediato a Santo Stefano nel settembre del 1949 e ci si trasferì con i genitori che avevano ceduto casa e terreni di Fontaneto agli altri fratelli, ma purtroppo il primo maggio del '50 il papà di Giuseppe morì improvvisamente a soli 59 anni e con lui rimase solo la mamma, scomparsa nel 1981.
Parroco di Santo Stefano era al tempo Don Angelo Bona (che sarà poi prevosto a Domodossola), un tipo sveglio che aveva raccolto intorno a sé - anche durante la guerra - ragazzi in gamba e di carattere. Il “pretino” Masseroni venne notato a Novara e presto delegato nella nuova realtà di San Bernardino e Sant'Anna, un quartiere operaio allora territorio di Santo Stefano. Una parrocchia da metter su tra i palazzi popolari che cominciavano a crescere correndo dietro al boom delle fabbriche e soprattutto della Rhodiatoce poi Montefibre, la grande e incombente fabbrica-città gonfiatasi fino a quasi 5.000 dipendenti ma poi finita come si sa). Una parrocchia   tutta da inventare, a cominciare dalla chiesa…che non c’era.
Ne verrà poi su una fatta tutta di legno, più baracca che basilica, ma immagino che lavorando a metterla  in piedi c’era già tutto lo spirito di don Giuseppe, missionario e carpentiere mancato.
Ad essere sinceri missionario e carpentiere mancato mica tanto visto che soggiorni di lavoro in Burundi ne ha fatti tanti e artigiano in fondo lo è sempre stato (e continua ad esserlo) perchè dategli un attrezzo in mano e tirerà fuori manualità insospettate.
La formula ottimale per lui sarebbe stata insomma quella di prete e carpentiere-missionario e infatti quando Giuseppe arrivava a  Rwaranbgabo (diocesi di Ngozi, Burundi, dieci chilometri dal Rwanda, appena su dall'equatore ) non faceva tempo a metter giù la valigia (meglio sarebbe dire l'officina, perché si muoveva con trapani, utensili ed attrezzature al seguito) che partiva a costruire scuole, aule, dispensari e poi panche, porte, travi, costruzioni: mai a tirare il fiato.
Anche la domenica pomeriggio, mentre il cugino don Carlo cercava di sentire in diretta alla radio le disavventure dell'Inter (per decenni “Tutto il calcio minuto per minuto” è stato uno dei pochi contatti con l'Italia per tanti emigrati) il Giuseppe come minimo sistemava una porta, una serratura, lo scarico della doccia.
Un pensiero a vivere stabilmente in terra di missione don Giuseppe deve averlo fatto di sicuro ma c'erano una mamma da curare, mille impegni, responsabilità e quindi il viaggio in Africa si doveva sempre rimandare tanto che i soggiorni in Burundi più o meno lunghi arrivarono solo anni dopo, quando uno avrebbe potuto prendere l'aereo da Malpensa ed arrivare comodo a Bujumbura.
Ritorniamo invece al 1957 quando il vescovo di Novara (che allora si chiamava Gilla Vincenzo Gremigni, un tipo molto all'antica e formalista che – si dice – a lungo sperò invano di diventare cardinale) chiamò Giuseppe a reggere la parrocchia in un’ area della città che (gli altri) dicevano essere “un covo dei rossi”.
Qui bisogna spiegarsi: gli anni '50 dell'altro secolo erano un po' diversi da quelli di adesso e quindi non erano facili a Verbania, come ovunque, i rapporti tra la chiesa e il mondo della fabbrica e del sindacato – che controllava anche l'amministrazione cittadina -  distanti spesso mille miglia da quello “bigotto e clericale” (la definizione era, come sempre, quella degli altri) costituito della struttura cattolica nella sua rete di parrocchie ed associazioni “bianche”.
Ma Giuseppe era già allora un tipo speciale, pieno di risorse e ci mise poco a fare amicizia con tutti, integrandosi pienamente con quel mondo difficile e fatto soprattutto di (allora) recente immigrazione prima dal Veneto e poi da Spinazzola, Ripacandida e dagli altri centri del sud che hanno dato linfa alla nostra città, mentre non mancavano lotte operaie e contrapposizioni a volte profonde.
Ero troppo giovane per ricordarmelo, ma lo immagino a visitare la gente, prodigarsi per trovare lavoro, sistemare famiglie, visitare l' ospedale, dare una mano a tutti magari chiedendola anche  al cav. Pietro Della Rossa che – come esponente DC, ma soprattutto responsabile delle assunzioni alla Rhodiatoce – poteva avere in mano il futuro di intere famiglie.
Intanto a Santo Stefano divenne parroco don Girolamo Giacomini, spedito a Pallanza sostanzialmente per punizione dal vescovo di allora perché troppo progressista e spesso su posizioni di aperta rottura con la gerarchia, un toscanaccio pieno di cultura e di idee nuove, di cristianesimo profondo e attento ai pensatori più innovatori. Don Giacomini ci mise poco a creare intorno a sé un gruppo di sacerdoti sempre più inseriti nella realtà sociale cittadina, aperti alle lotte operaie.
Don Giuseppe era uno di questi e San Bernardino rappresentava un punto di coesione importante.
Venne poi il 1966 quando lasciò la sua parrocchia, “promosso” a San Leonardo, un viaggio di pochi chilometri ma in una realtà socialmente un po’ diversa e parrocchia con diverse e antiche tradizioni non fosse che per avere alle spalle almeno cinquecento anni di storia.
Mi ricordo ancora il giorno del suo ingresso ufficiale: ero uno scout, il caposquadriglia delle “tigri” e facevamo ala in divisa su per i gradini del sagrato a questo nuovo prete magro e con i capelli neri, tagliati a spazzola. “Sarò il prete di tutti, per tutti” disse nella sua prima omelia ed è stato davvero così.
Erano anni difficili in una città che cresceva velocemente, ma anche tra contrasti nella stessa chiesa verbanese. Io non la pensavo come don Giuseppe su alcune questioni, ma ricordo ancora un invito a cena che mio padre volle rivolgergli e una lunga, affettuosa chiacchierata in salotto che mise in chiaro molti aspetti controversi. Dentro di me rimasi colpito da un paio di concetti che mi furono molto utili per “raddrizzare il tiro” e gliene sono ancora grato.
Anni che corrono veloci: ne sono passati quaranta, e mi sembrano ieri. Cambiata la liturgia e i segni dei tempi, cambiata la città che ha perso il suo slancio propulsivo, invecchiati gli abitanti di una Verbania sempre più anziana, invertito il flusso migratorio che ha portato a nuove realtà.
Oggi non c'è più nemmeno quella chiesina di San Bernardino bruciata in un incendio con Don Giuseppe che a fatica mise in salvo il Santissimo all'ultimo momento, ricostruita più bella di prima, ma un po' meno “missionaria” perchè quella povera struttura in legno assomigliava tanto alle chiese dell'Africa costruite in fretta ai margini della foresta.
Anni che corrono, ma in cui Giuseppe ha lavorato ogni giorno per tutti mettendo a disposizione la sua vita per la nostra comunità condividendo con ciascuno di noi tante occasioni liete e tristi.
Ha visto nascere e morire, ha benedetto matrimoni e battesimi, ha chiuso gli occhi a tante persone care.
In questi anni anche don Giuseppe è cambiato e non solo perchè i suoi capelli da neri sono man mano diventati bianchi, ma perchè ha assunto un tratto diverso, più sereno e profondo, da grande maestro di vita. Quello che in lui non è mai cambiato è stato piuttosto il suo desiderio di condividere con la gente le difficoltà con aiuti concreti fatti di gesti utili e immediati, oltre che da un sorriso.
Aiutare la gente per un prete non è solo benedire ma appunto stare vicino, ascoltare, consigliare e questo ben al di là dello stretto senso religioso, anzi, quante volte le persone hanno ricorso a lui eppure non frequentavano la parrocchia o non erano neppure cristiani.
E allora l'amicizia diventa anche “fare”: quanti armadi aggiustati, traslochi, letti recuperati? Aiutare è anche mettere a posto lo scarico di un lavandino a un'anziana che da sola non ce la fa, guardare negli occhi  immigrati che - specialmente qualche tempo fa - arrivavano sgarrupati ed incerti, come gli albanesi che nei primi anni '90 scappavano  in gommone  e poi, arrivati in Italia, anche dai campi di accoglienza.
Per Giuseppe stare con la gente ha sempre significato sistemare case, salutare tutti, dare un primo aiuto a chi usciva dal carcere. “Missione” è trovare un letto e una minestra sui due piedi per chi non ce l'ha e questa disponibilità totale è sempre stata la sua predica più bella, perchè era l'azione che concretizzava la Parola.
Lo potremmo definire un “Guru”, ma io lo chiamerei piuttosto buon esempio, fatto di semplicità ed essenzialità per dare certezze, ma allo stesso tempo sposando sempre di più l'immagine di una Chiesa aperta, essenziale, più povera ma pronta a capire e perdonare. Una chiesa soprattutto vicina all' Uomo, con tutti i suoi difetti ma anche sottolineando le sue grandi possibilità di crescita.
Una filosofia della speranza, insomma, del non arrendersi mai, del perdono profondo, dell'impegno senza riserve.
Spesso - mentre viaggio in auto non solo stando attaccato al cellulare - risento su CD le sue omelie della domenica (gliele hanno registrate di nascosto) che da anni tiene a Santo Stefano e in quelle parole c'è appunto un grande messaggio che è fatto di parole semplici, mani aperte, apertura mentale e spirituale a sottolineare che sono le azioni del cuore quelle che contano più, non le formule.
D’altronde se il Signore si è fatto uomo come noi, ci conosce benissimo e quindi ci capisce quando ci rivolgiamo a lui con tutti i nostri dubbi ed i nostri errori, senza per questo dovere averne paura.
Le prediche di Giuseppe sono belle anche perché calano la parabola o la liturgia della domenica negli atti concreti, nei problemi comportamentali di ogni giorno.
Risentendole, stupisce che ci siano tante frasi che esprimono concetti e poi vengono lasciate per aria, interrotte, quasi che debbano essere proseguite dal ragionamento di chi ascolta perché da un certo punto in poi non è il prete a dover parlare, ma direttamente la coscienza di ognuno.
Scrivendo me lo vedo davanti e mi scorrono le immagini di un Giuseppe sempre in giro e operativo, prima con uno scassatissimo “maggiolone” grigio Volkswagen, lo stesso modello e colore di suo cugino Carlo in Burundi, scassato questo come quello, che rimisi una volta in marcia sulla salita in terra battuta verso Murehe con una corda al posto della cinghia di trasmissione e per questo venni dipinto come provetto meccanico, invece è stata l'unica riparazione della mia vita...
Ma mentre don Carlo passò poi ad una Panda 4x4 don Giuseppe ha optato per la bicicletta e così me lo rivedo, in bilico con materiale vario di trasferimento al seguito, oppure fermo a un angolo di strada a parlare con la gente. All'immagine sovrappongo il suo sorriso, la sua tranquillità di ragionamento e di impegno, l'amicizia con cui ti accoglie magari in un confessionale.
Una fede che costruisce speranza, ti allontana dalla disperazione, anno dopo anno ti aiuta nella missione di affrontare i problemi con più calma ma meditando e risolvendoli bene. Una fede che si trasforma quindi in riflessione, silenzi ma rafforzando l'impegno verso gli altri che significa non arrendersi mai neppure nei momenti più bui.
E nel solco del ricordo emergono tanti visi, voci, personaggi di una Pallanza che cambia come la vita. Dal sacrista-elettricista Gualdi alla mamma di Don Giuseppe così dolce (e sempre anche lei a sistemare qualcosa), ai sacerdoti che si sono avvicendati a Pallanza in questi decenni: tanti “don” da Piergiorgio a Riccardo, a don Carlo con Gianni, Roberto e negli ultimi anni don Simone. Gente che va e che viene mentre lui è sempre lì, “parroco emerito” come si dice adesso.
La vite piantata da Giuseppe è lui stesso ed è cresciuta, ha portato frutto, ha messo radici, ha fatto crescere una comunità cittadina che ogni giorno è chiamata a confrontarsi con le difficoltà ma che – se si volta indietro – scopre di averne comunque superate tante.
Per questo, nel momento in cui la nostra vita come quella di Don Giuseppe si avvia ad un naturale tramonto, da quella comunità esce spontaneo un “grazie” che diventa sorriso semplice, una mano aperta che non si chiude mai.
E' un po' come in certi pomeriggi tiepidi quando anche a Pallanza l'ultimo raggio di sole è già calato dietro il Mottarone ma le pietre del lungolago e delle case sono ancora calde e riflettono il calore della giornata.
Ti metti allora un attimo a guardare il lago da una finestra o da una panchina, ringrazi per lo spettacolo stupendo che ti viene offerto e pensi alle persone più care che quello scenario lo hanno condiviso con te.
Viene spontaneo e facile dire una preghiera di “grazie” al Grande Capo per essere lì a poter vivere la bellezza del momento, ma ricordando anche  chi - nel Suo nome -  nella vita ti ha dato una mano, perché qualche volta il Signore sembra lontano e qualcuno invece ti è stato vicino.
In quei momenti, in molti credo ricordiamo don Giuseppe.
MARCO ZACCHERA
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